Bowlby , al fine dello sviluppo del sé, individua tre stili di attaccamento: sicuro, evitante e ansioso. Egli sostiene che un attaccamento adeguato influisce al fine di evitare situazioni patologiche future come la depressione e gli stati d’ansia. Le persone che in futuro svilupperanno tali patologie hanno vissuto esperienze di disperazione, di angoscia e di distacco durante l’infanzia. Bowlby, inoltre, introduce il concetto di cicli di privazione e di resilienza  per descrivere le persone che hanno vissuto esperienze angosciose e di privazione durante l’infanzia. In base alle sue ricerche notò che i soggetti che durante l’infanzia hanno vissuto esperienze di deprivazione e di abbandono tendono, una volta adulti, a ripetere gli stessi tipi di comportamento, anche se il vissuto può essere attutito dalla presenza di un fratello e/o di un ambiente particolarmente favorevole che riesca a sostituire le esigenze di caregiver.

Stern mette in risalto che la relazione madre-bambino non è direzionale ma bidirezionale e il bambino nell’ambito di questo rapporto assume una parte attiva portando all’interno della stessa relazione elementi legati all’ambiente di vita: il sé e l’altro.

Bion,  parlando della madre sufficientemente buona sostiene che essa permette al bambino di esprimere le sue angosce, le tollera e le contiene senza angosciarsi a sua volta: in questo modo lei restituisce al figlio le emozioni di lui, filtrate dal contenimento e bonificate.

In sostanza la good enough mother riesce a trasmettere al figlio la fiducia e la speranza insita nella capacità di donare sapendo di poter essere ricambiati. Molte volte i genitori chiedono quali sono i comportamenti da adottare per essere buoni padri o madri, potremmo semplicemente rispondere di dare fiducia e speranza ai propri figli nei legami. L’importante non è commettere errori, ma riuscire , come sostenuto da Bettelheim, a imparare dai propri sbagli, di riflettere e riparare ben sapendo che il lavoro genitoriale è soggetto a molteplici frustrazioni. Per Winnicott l’errore è un elemento importante della genitorialità poiché è proprio dall’errore che bisogna ripartire quando s’incontrano ostacoli e, per questo, diviene risorsa e forma di apprendimento che serve per ri-programmare altre scelte.

A volte, però l’errore non è riconosciuto tant’è che è stato introdotto il concetto di madre castrante, divorante, simbiotica per dimostrare che i maschi adulti che hanno avuto cattivi rapporti con la propria madre, tendono ad avere un rapporto non soddisfacente con le donne.  Le madri castranti sono iperprotettive, inibenti, ansiogene, preoccupate, simbiotiche. Esse vedono il figlio come un eterno bambino, anche se è già adulto, spesso si riferiscono a lui con vezzeggiativi tipici di una relazione infantile. Sono in genere madri che hanno bisogno che il figlio segua la loro visione del mondo e delle cose: hanno già in mente tutto il loro futuro dispiegato in un attimo, sono costantemente in ansia, anche se il figlio sta semplicemente facendo il suo mestiere di figlio, ovvero esprimere la sua turbolenza infantile, fare dispetti, disubbidire. Le sfumature possono andare dalla freddezza della madre-soldato, alla fusionalità della madre simbiotica, ma in ogni caso abbiamo a che fare con relazioni malate e castranti. La madre simbiotica, in particolare, ha bisogno del contatto fisico con il figlio, gli piace stropicciarlo, baciarlo, averlo per sé: ma un contatto così esasperato non è mai un reale istinto di donazione: è un modo per fagocitare, prendere, succhiare l’anima del figlio per farla tutta sua.

L’incapacità a donare porta i figli ad instaurare relazioni non incentrate sull’amore ma solo sul soddisfacimento delle proprie esigenze narcisistiche. G. Cortesi sostiene che “se alle spalle – magari non ricordato, magari rimosso o negato, magari coperto dal mito di una madre idealizzata – c’è un accudimento materno o troppo divorante o troppo rifiutante e castrante (la carenza materna è sempre comunque espressione di una coppia genitoriale carente), quel maschio non riuscirà da adulto ad affidarsi al femminile, non saprà e – soprattutto – non potrà vivere la dolcissima avventura di tuffarsi nel magico e trasformante potere della femmina, affidandosi al suo abbraccio e penetrandone il mistero”. Le esigenze narcisistiche tendono al possesso dell’altro in contrapposizione al mancato possesso dell’amore materno e giacché tali a una relazione di coppia patologica.

Anche le esperienze di abbandono infantile comportano  lo sviluppo di esigenze narcisistiche che comportano relazioni tese al non riconoscimento delle esigenze dell’altro. Se volessimo sintetizzare il bambino piccolo, piange e si dispera non appena la madre si allontana sperimentando l’angoscia da separazione. La perdita della persona che ci accudisce rappresenta un lutto ed è vissuta come una grave minaccia alla propria esistenza, un’amputazione di una parte di sé. Spesso si accompagna alla percezione di non poter sopravvivere senza l’altro, e a una visione catastrofica della vita e del mondo. Le esperienze di perdita e di abbandono nell’adulto possono rievocare antiche ferite, facendo riaffiorare costellazioni di angosce primitive, mai metabolizzate, confermando le aspettative di tradimento, inaffidabilità da parte dell’altro e un’immagine di sé come vulnerabile, destinato a essere ferito, rifiutato nei rapporti. La separazione diventa non solo perdita dell’altro ma anche perdita di sé, come persona degna di amore. Il mondo diventa improvvisamente un deserto privo di senso, dove niente è stabile e ogni rapporto intimo porta con sé il fantasma dell’abbandono e del dolore insostenibile che comporta. Spesso soggetti di questo tipo tendono a sviluppare il disturbo ossessivo compulsivo in cui la percezione di un abbandono o un abbandono realmente vissuto diventano il substrato su cui si sviluppa lo stesso disturbo. Nella mia pratica clinica ho sempre ritrovato al di sotto del DOC un vissuto di abbandono. Riporto il caso di un paziente dell’età di 35 anni che da circa 20 anni convive con i rituali e le rimurginazioni tipiche del disturbo. La sua vita è totalmente invasa dal disturbo poiché deve svolgere il rituale all’avvicinarsi  di determinati numeri che cambiano di volta in volta. A volte il numero può essere il 6 per cui deve ripetere il rituale per almeno nove volte se lo ha fatto sei volte e cosi via.  Il pensiero ossessivo che deve essere sconfitto dai rituali è che in assenza delle ripetizioni si possa sviluppare un’alta velocità che comporterebbe disastri alle persone care e, in particolare, i familiari. Nella fase sociale del primo colloquio il paziente racconta che all’età di 5 anni la mamma,  a seguito di una malattia del fratello,  lo ha dovuto lasciare per parecchio tempo e che successivamente era rimasto sempre con la nonna poiché ambedue i genitori si sono dovuti trasferire per lavoro. I bambini, non in grado ancora di razionalizzare i motivi che stanno alla base della scomparsa o dell’allontanamento delle figure di attaccamento,  reagiscono al vissuto di abbandono attraverso sentimenti di svalutazione e di colpa. I miei genitori sono andati via perché ho commesso qualcosa di grave o non ho fatto qualcosa. E’ evidente che, successivamente, per sfuggire all’angoscia dell’abbandono metaforicamente attraverso i rituali tendono a controllare i vari avvenimenti di vita. Non è un caso che il paziente in questione dopo aver vissuto per anni lontano dalla famiglia e di essersi sottoposto a un percorso terapeutico aveva raggiunto un buon compenso sul piano sintomatologico. Al ritorno in Sicilia e all’interno della famiglia di origine ha avuto immediatamente una ricaduta sul piano sintomatologico. Questo caso non fa altro che sottolineare l’importanza che assume il care giver lungo le fasi dello sviluppo.

La psicoanalisi ha avuto il merito di analizzare in profondità il care giver materno e ha previsto dei modelli predittivi per l’instaurarsi di patologie future. In sostanza ci ha detto che se gli atomi non si differenziano non si può creare, come affermato in precedenza, lo spazio intersoggettivo e , quindi, i legami. Al contrario, non ha, se non marginalmente, tenuto conto che il soggetto vive in un ambiente relazionale che può colmare le lacune del cargiver materno.

A questa lacuna sembra rispondere Hartmann , uno psicoanalista americano, che alla fine degli anni ’30, pur affermando l’esistenza del conflitto tra l’Io e l’Es e la forza delle pulsioni, sposta la sua attenzione sul conflitto tra l’Io e il mondo esterno ovvero la relazione tra i bisogni dell’Io, e quindi non necessariamente inconsci, e le richieste dell’ambiente. In quest’ambito la patologia può anche nascere dal mancato adattamento all’ambiente o dalle relazioni con gli altri e dal confronto con i ruoli sociali.

Sullivan,  partendo dal presupposto che l’uomo è un essere sociale che cresce in interazione con la comunità in cui vive, afferma che lo sviluppo del bambino dipende dal suo bisogno di essere approvato dalle persone per lui significative in modo da interiorizzare un senso di sicurezza. Al contrario, senza tale approvazione, il bambino prova un senso di malessere che lo porta a costruire un sistema del sé caratterizzato dall’angoscia di base. A seguito delle ricerche cliniche di Sullivan, in America una scuola denominata modello relazionale psicoanalitico, di cui il maggior rappresentante è Mitchel  che parte dal presupposto che le persone sono strutturate in maniera tale da essere attratte una dall’altra. Tale modalità è definita da Mitchel “relazionale per destino” e la mutua da Bolwby il quale nella teoria dell’attaccamento sostiene che la relazione è un bisogno fondamentale innato del bambino.

Ritornando alla chimica gli atomi si uniscono tra di loro in base alle loro caratteristiche intrinseche ed estrinseche e, quindi, possiamo senza dubbio affermare che contengono nella loro natura la predisposizione e l’esigenza di legarsi.

D’altronde tutto parte da una serie di atomi, che si legano attraverso il legame covalente per formare il DNA e l’RNA, che costituiscono le basi su cui si costruisce il corpo umano. In sostanza, noi siamo formati da atomi che legandosi costruiscono le molecole, che unendosi a loro volta, fabbricano le cellule. Quest’ultime legate formano i tessuti, che messi insieme danno origine agli organi i quali plasmano gli apparati e, per finire, quest’ultimi legandosi il corpo umano. Questo in sintesi è il formarsi di ciò che definiamo il biologico.

Nel biologico tutti gli elementi tendono a differenziarsi, a riconoscersi per differenza e, nel momento in cui s’inglobano o si legano, perdono la loro soggettività in favore di un terzo soggetto al quale si sentono di appartenere: dire mano, al massimo, significa che è formata da cinque dita. A nessuno di noi, se non per interessi scientifici, verrebbe di specificare le singole cellule, molecole o, peggio ancora, atomi che formano la mano. Al contrario, i singoli atomi, le singole cellule o molecole si riconoscono nella mano.

D’altronde, come ci insegna la gestalt, la percezione, e non solo per un fatto culturale, si presenta come un tutto unico, come una struttura e non come la somma dei singoli elementi. Lo stesso accade al biologico che si presenta ed è percepito  come una struttura unica e non divisa per singoli elementi. Sempre nel biologico accade un processo che perdendo ci fa acquistare autonomia: il parto, la nascita.

Il feto che vive in totale simbiosi con la madre e che vede tutti i suoi “desideri” soddisfatti arriva al punto in cui per conquistare la sua autonomia “decide” di perdere la sua serenità e, quindi, di nascere. E’ dal momento in cui inizia il meccanismo del parto che il soggetto tende a differenziarsi dalla madre e, se volessimo andare più indietro, è dal momento del concepimento che inizia il processo di differenziazione. Durante la meiosi la nuova cellula, anche se contiene le informazioni genetiche delle precedenti, non ne è la loro somma. Se la nuova cellula è il primordio di un nuovo individuo: ecco l’inizio del processo di differenziazione.

La trasformazione del biologico in culturale abbisogna di un per dirla con Freud, lavoro psichico che, a mio parere, sta all’interno dei processi di differenziazione che trovano riscontro all’interno degli spazi intra e interpsichici il cui presupposto centrale sono i legami.

 

Bibliografia

Bettelheim, B. (1960) The Informed Heart: Autonomy in a Mass Age. Glencoe, Ill.: Free Press .(trad. it. Bertolucci, P.  Il prezzo della vita: l’autonomia individuale in una società di massa . Milano:  Adelphi, 1965)

Bettelheim, B. (1961) Dialogues with Mothers. Glencoe, Ill.: Free Press .(trad. it. Mannucci, L. V..  Dialoghi con le Madri. Roma :  Ed. Comunità, 1964)

Bettelheim, B. (1987) A Good Enough Parent: A Book on Child-Rearing. Alfred a Knopf Inc.(trad. it. Bottini, A.,   Un genitore quasi perfetto. Milano :  Feltrinelli, 1987)

Bion, W. (1962). Learning from experience. Northvale, NJ: Jason Aronson. (Trad. It. Apprendere dall’Esperienza. Roma: Armando Editore, 2009)

Bowlby, J. (1968). Attachment and Loss, Vol. 1: Attachment. New York: Basic Books. (trad. it. Attaccamento e perdita. 1: L’attaccamento alla madre,  Torino, Boringhieri, 1976)

Bowlby, J. (1973). Attachment and Loss, Vol. 2: Separation, Anxiety, and Anger. London: Penguin Books. (trad. It.  Attaccamento e perdita. 2: La separazione dalla madre,  Torino, Boringhieri, 1978)

Bowlby, J. (1980). Attachment and Loss, Vol. 3: Loss: Sadness and Depression. New York: Basic Books. (Trad. It.  Attaccamento e perdita. 3: La perdita della madre, Torino, Boringhieri, 1983,)

Cortesi, G. , Madre divorante. From: https://gigicortesi.wordpress.com/tag/madre-divorante/

Hartmann H, Implicazioni tecniche della Psicologia dell’Io, 1951. In: “Saggi sulla psicologia dell’Io”, Torino, Boringhieri, 1964.

Hartmann H. (1939), Psicologia dell’Io e problema dell’adattamento, Torino, Bollati Boringhieri, 1978.

Mitchell, S.A. ,  Gli orientamenti relazionali in Psicoanalisi. Per un modello integrato. Bollati Boringhieri, Torino, 1993

Stern, D., (1970) Le interazioni madre-bambino, Milano: Raffaello Cortina Editore, 1998

Sullivan, H. S. (1962) Schizophrenia as a Human Process. W. W. Norton

Winnicott, D. W., La famiglia e lo sviluppo dell’individuo, trad. Carlo Mazzantini, Roma: Armando, 1968

 

Pubblicato su State of Mind: https://www.stateofmind.it/2019/06/differenziazione-attaccamento/

I legami e il dono. Dalla good enough mother ai processi di differenziazione

Freud, in “al di là del principio di piacere”,  attraverso il concetto di “coazione a ripetere”  afferma che gli adulti ricreano nei rapporti interpersonali della propria vita le esperienze di relazioni della prima infanzia. Ciò implica l’esistenza negli individui della capacità d’interiorizzazione e perpetuare modelli di relazione.

Le relazioni riguardanti la prima infanzia per Freud riguardano, seppure nelle varie fasi dello sviluppo, il soddisfacimento dei bisogni fisiologici. Il neonato vive in uno stato di “narcisismo primario” e sperimenta l’angoscia riguardo al bisogno di nutrimento. La madre che per il tramite del seno fornisce il cibo diventa oggetto di amore per la sua capacità di attenuare, con la sua presenza e disponibilità, l’angoscia.

Infatti, il dono per Freud è la presenza della madre che tramite il cibo soddisfa i bisogni del bambino. Da ciò si deduce che l’assenza di dono ovvero una madre che non soddisfa questi bisogni primari non stabilisce un legame rassicurante per il bambino.

In seguito Freud nel saggio “inibizione, sintomo e angoscia”  introduce il concetto di segnale di angoscia in cui il bambino si sente rassicurato dalla presenza della madre e sviluppa l’angoscia in caso di separazione o di assenza.  In questo caso il dono per il bambino è la presenza della madre.

Harlow, in seguito, nei suoi studi sull’attaccamento, dimostrò che le scimmie rheus preferivano la mamma surrogata di peluche piuttosto che quella con il biberon ma solo di filo metallico. Ciò permise ai coniugi Harlow di dimostrare che i piccoli macao si sentivano protetti dalla presenza della madre, anche se surrogata da un peluche, piuttosto che dal soddisfacimento dei bisogni fisiologici.

Harlow con i suoi esperimenti andò oltre tenendo i piccoli macao in piccole gabbie in assoluto isolamento ma con grande disponibilità di acqua e cibo. Dopo un po’ di tempo i piccoli cominciarono a mostrare una serie di alterazioni comportamentali. Addirittura quelli che rimasero rinchiusi all’incirca un anno mostravano un comportamento catatonico,  non manifestando nessun interesse per l’ambiente esterno. Le scimmie una volta raggiunta l’età adulta non riuscivano a relazionarsi in modo corretto non cercando e trovando un partner, non mostrando nessuna necessità di avere figli. Alcuni macachi, inoltre, si lasciavano morire smettendo di mangiare e bere. Le femmine  non mostravano nessun interesse ad avere figli, Harlow li fece fecondare contro la loro volontà. I risultati furono terribili poiché non si curavano per niente dei figli, non gli davano da mangiare e addirittura arrivavano a mutilare i loro piccoli.

Gli studi di Harlow sembrano indicarci, da un lato, che la presenza della madre e il dono dell’affetto fanno nascere un debito positivo che genera nei figli il bisogno successivo alla cura, mentre l’assenza della madre non genera legame poiché  crea un debito negativo che tende a mantenersi. La mamma è fonte di affetto e di sicurezza se dona la sua presenza al figlio. Inoltre, Harlow tende ad accennare a un concetto generativo dell’attaccamento per cui attaccamento genera attaccamento.

Gli studi di Harlow nascono nell’ambito delle teorizzazioni sull’attaccamento infantile dovute agli studi di M. Klein  che apporta alle teorie freudiane alcuni elementi di novità dovuti in particolar modo al suo lavoro con i bambini. Fermo restando il soddisfacimento dei bisogni fisiologici, introduce anche il concetto di relazioni oggettuali. Secondo questo modello il bambino non interiorizza più un oggetto o una persona ma l’intera situazione relazionale caratterizzata da un vissuto emotivo, un modo di sentire se stessi e un modo di sentire l’altro. Le interiorizzazioni possono essere connotate positivamente e, quindi, costituire un oggetto buono o, al contrario, negativamente e costituire un oggetto cattivo. La novità della teoria della Klein è costituita, inoltre, dalle influenze che il mondo interno del bambino ha sulla relazione. La nostra autrice ipotizza l’esistenza di un istinto di morte. E’ la presenza di questo istinto che fa si che la prima relazione con la madre è pervasa dall’invidia primitiva, da fantasie sadiche, da meccanismi di proiezione che possono provocare delle distorsioni percettive.  L’istinto di morte è preesistente rispetto alla relazione oggettuale ed ha una forte influenza su quest’ultima. Ciò che s’inizia  a ipotizzare con le teorie Kleiniane è il ruolo del sedimento culturale presente all’interno dell’inconscio che è sì la sede delle pulsioni ma anche di una trasmissione filogenetica che viene da lontano.

In sostanza con gli studi della Klein, prima, e di Bolbwy, Harlow, Winnicott, Bion, Stern e altri si passa da una concezione, tipicamente freudiana, di relazione madre-figlio totalmente simbiotica che può essere rotta solo dall’intervento del terzo (fase edipica), a una relazione diadica o oggettuale in cui i due attori – madre e figlio – interagiscono tra di loro essendo dotato il neonato da un patrimonio genetico efficace sin dalla nascita a promuovere vicinanza e contatto con la madre. La differenza non è di poco conto poiché il nucleo delle disfunzioni successive in Freud va ricercato nel legame simbiotico madre-bambino mentre, per i secondi, va trovato nelle relazioni tra il bambino e l’oggetto che nel primo periodo non può che essere la madre o parti di essa .

La Mahler, attraverso lo sviluppo del concetto  di separazione-individuazione e di distinzione fra sé e non sé ,supera questa dicotomia descrivendo uno sviluppo in fasi che prevede la presenza sia delle fasi simbiotiche sia di quelle oggettuali in relazione allo sviluppo psicobiologico del bambino:

  • fase autistica da o a 2 mesi in cui il bambino pensa alla sua sopravvivenza più ché alle relazioni oggettuali;
  • fase simbiotica da 2 a 6 mesi riesce ad avere una vaga coscienza della mamma e si percepisce come totalmente in simbiosi e dipendenza con quest’ultima;
  • fase di separazione-individuazione da 6 a 36 mesi in cui attraverso la differenziazione, la sperimentazione, il riavvicinamento e la costanza oggettuale, il bambino differenzia il sé dagli altri.

Se la differenziazione fra l’immagine del sé e quella degli oggetti fallisce, vi è un terreno fertile per lo sviluppo successivo delle psicosi. La Mahler sostiene che la fase simbiotica richiede che il bambino si comporti come se lui e la madre fossero una cosa sola e “un sistema onnipotente, un’unità duale racchiusa dentro gli stessi confini”.  Nella psicosi simbiotica vi è fusione, dissolvimento e mancanza di differenziazione tra il sé e il non sé: una completa indefinizione dei confini. Questa ipotesi ci ha condotto allo studio della normale formazione di un’entità separata e di un’identità. Quando in certi casi il ritardo delle funzioni autonome dell’io, è unito a un concomitante ritardo della prontezza emotiva a funzionare separatamente dalla madre, dà origine a un panico a livello di organismo. E’ questo panico che causa la frammentazione dell’io e genera così il quadro clinico della simbiosi psicotica infantile”. Racamier,  in “Genio delle origini”, afferma che la rottura della fase simbiotica sia il primo dei lutti che il bambino deve imparare a elaborare al fine di elaborare i vari lutti che nella vita è costretto a superare: “Il lutto originario è dunque la prima e prolungata prova che l’io deve affrontare per scoprire l’oggetto. In virtù di un paradosso fondatore, questo è perduto prima che trovato, allo stesso modo non si trova l’io se non accettando di perdersi”.

Da ciò deriva che il legame madre-bambino prevede una differenziazione tra i due nuclei con lo stabilizzarsi dei relativi confini senza che venga meno il processo di legame, cosi come descritto in precedenza. Lo strutturarsi di fenomeni psicotici, in sostanza, è legata alla fusione dei due nuclei più che a un interscambio di elettroni. Se all’inizio (fase autistica e fase simbiotica), la fusione, in senso chimico e fisico, apporta calore alla relazione, in assenza di differenziazione si determina una deflagrazione.

Il calore, inoltre, come sostenuto in precedenza, costituisce l’energia di legame in grado di fare cambiare stato alla materia da solida in liquida o da liquida in gassosa. E’ attraverso il calore della relazione che il soggetto è in grado di differenziare il sé e conquistare una propria identità.  Da notare, ancora una volta, che per acquistare (identità o consapevolezza di sé) si deve perdere la funzione protettrice della simbiosi. Ritorna la funzione del dono nel senso del perdere al fine d’acquistare nuovi legami.  Uscire dalla simbiosi, infatti, vuol dire acquistare consapevolezza di sé e in forza di questa nuova immagine d’identità potersi predisporre al legame con gli altri. Conquistare una nuova stabilità con confini chiari apre alla possibilità di potersi legare con altri soggetti esattamente come fanno i composti in chimica. Se ci trasformiamo in molecola, abbiamo la possibilità, attraverso i legami secondari, a unirci ad altre molecole in modo da formare altri composti. Essendo un processo che si perpetua all’infinito, non vi è dubbio che assuma forme antropologiche e simboliche.

Al contrario, i processi che impediscono, provenienti sia dalla madre sia dal bambino, come vedremo in seguito,  il processo di differenziazione non danno la possibilità di formare nuovi legami. E’ quello che succede ai primati di Harlow alle quali, attraverso l’isolamento, non si da la possibilità di sperimentare la fase simbiotica e, di conseguenza, di potersi differenziare e conquistare una consapevolezza di sé e, quindi, di poter stabilire legami stabili nel momento in cui vengono liberate. E’quello che succede alle relazioni in cui le madri trattengono i figli in simbiosi con loro e non permettono la perimetrazione del territorio attraverso la creazione di confini. Levy, a questo proposito parla di madri iperprotettive che, a loro volta,  avevano avuto profonde carenze e che, in qualche modo, le spingono “a cercare di ottenere dai figli ciò che non avevano ottenuto dalle proprie madri”.  Lidz ,   definisce queste madri come impenetrabili ai bisogni dei figli che continuamente propongono la mancanza di significato della loro vita .

Winnicott, afferma che, all’inizio della vita, ognuno esiste solo perché parte di una relazione e, le sue possibilità di vivere e svilupparsi, dipendono totalmente dal soddisfacimento del bisogno primario di attaccamento e appartenenza a un Altro (madre/caregiver) che si prenda cura di lui e gli dia qual senso di sicurezza e intimità che sono basilari per la crescita . Sarà proprio in rapporto alla qualità affettiva di tale relazione primaria, da quanto la figura di attaccamento sarà disponibile, protettiva, affidabile, costante e capace di un contatto caldo e rassicurante che dipenderà lo sviluppo sano del suo vero Sé. Da questo presupposto nasce la good enough mother che è quella madre che sa regredire, diventare piccola come il suo bambino, per sintonizzarsi meglio su di lui, sul suo mondo interno e su i suoi bisogni.

Bibliografia

Freud, S., (1920), Jenseits des Lustprinzips, University of Michigan Libraries (trad. It. Colorni, R., Marietti, A. M., Al di là del principio del piacere, Torino: Bollati Boringhieri, 2000)

Freud, S, inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti: 1924-1929, Torino, Bollati Boringhieri, 2000

Harlow, H.F., Dodsworth R. O., Harlow M. K., Total social isolation in monkeys,  Proc Natl Acad Sci U S A. 1965.

Klein, M., Nuove vie della psicanalisi. il significato del conflitto infantile nello schema del comportamento dell’adulto, in Milano: Il Saggiatore, 1966

Klein, M.,  o sviluppo libidico del bambino 1921-23, prefazione di Franco De Masi, Torino: Bollati Boringhieri, 2013

Mahler M. ( e altri),La nascita psicologica del bambino, Torino:  Boringhieri,, 1978

Mahler M,Le psicosi infantili, Torino: Boringhieri, , 1972

Racamier, P., il genio delle origini, Psicoanalisi e psicosi, Milano: Raffaello Cortina, 1993

Sullivan, H. S., Teoria Interpersonale della psichiatria,  Milano: Feltrinelli, 1972

Thompson, C., Psicoanalisi interpersonale, Torino: Bollati Boringhieri,  1972

Winnicott, D., Il bambino e la famiglia, Firenze: Giunti e Barbera, 1975

 

pubblicato su State of Mind: https://www.stateofmind.it/2019/06/care-giver-madre/

I legame e il dono: il care-giver materno
Il Dono come trascendenza

L’atto del donare, del ricevere e del ricambiare, utili a mantenere questo sistema d’interdipendenza, è intenzionale e, in quanto tale, è orientato e, quindi, è portatore di senso. Come abbiamo appreso dalla psicoanalisi tutte le azioni sono...

Read More